La Suprema Corte è intervenuta nuovamente sulla differenza tra somministrazione di lavoro e appalto con la recente pronuncia della Sezione Lavoro n. 17627 dd. 20.06.2023, soffermandosi in particolare sulla liceità di un contratto di appalto di una società che si avvalga di un lavoratore di una società terza.
Nella parte motiva della sentenza la Corte analizza in primis i contratti d’appalto ex art. 1655 c.c. e quello di somministrazione di manodopera ex art. 30 D.Lgs. n. 81/2015 delineandone le differenze, in conformità con due precedenti sentenze del 2020.
Di seguito la pronuncia per esteso.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza n. 146/2019, ha rigettato il gravame di Poste Italiane Spa
confermando la sentenza del tribunale che aveva accolto il ricorso proposto da A.A. con il quale il lavoratore chiedeva che, previo accertamento dell’illegittima interposizione di manodopera relativa al rapporto di lavoro intercorrente formalmente con l’impresa individuale B.B., venisse dichiarata la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con Poste Italiane Spa a
decorrere dall’1.3.2013, con inquadramento nel livello D, addetto senior, o in subordine nel livello E
addetto junior, del CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane, con condanna a corrispondergli le differenze retributive.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane Spa sulla base di sei motivi. Ha resistito con tempestivo controricorso A.A.. B.B. è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1.- con il primo motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360
c.p.c., n. 3; error in iudicando con riferimento agli artt. 113 c.p.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, art. 1655
c.c., atteso che la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto applicabile al caso di specie le norme
relative alla somministrazione di lavoro ed ha erroneamente individuato le condizioni per accertare la
genuinità del contratto di appalto;
2.- con il secondo motivo viene dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti. Error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione all’art.
115 c.p.c. dato che, stante l’errore evidenziato al punto uno, la sentenza, per gli accertamenti condotti,
sarebbe viziata in ordine al principio di disponibilità delle prove, avendo accertato la genuinità del
contratto d’appalto con riguardo al solo potere organizzativo e direttivo svolto dall’appaltatore,
anzichè all’organizzazione dei mezzi e del rischio di impresa;
3.- con il terzo motivo viene dedotta violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c.,
n. 3 Error in iudicando con riferimento agli artt. 113 c.p.c. e artt. 1655, 1662, 1665, 1677 c.c., avendo la
Corte d’appello erroneamente ritenuto che l’illegittimo eserciziodel potere di controllo da parte
dell’appaltante sul lavoro dell’appaltatore costituisca indice di non genuinità del contratto d’appalto;
4.- con il quarto motivo viene dedotta: a) violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360
c.p.c., n. 3 Error in iudicando con riferimento agli art. 113 c.p.c. e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 e art. 1655
c.c.; nonchè b) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione
tra le parti 360 c.p.c., n. 5 in relazione all’art. 115 c.p.c. Error in procedendo, avendo la Corte d’appello da
un lato attribuito ai cosiddetti MOD. MPT (Modelli di pianificazione dei Trasporti allegati ai contratti
d’appalto), indicanti i percorsi che l’appaltatore deve eseguire nell’esecuzione del contratto d’appalto,
una valenza diversa rispetto a quella effettiva; dall’altra, omesso di prendere in considerazione fatti
che – oggetto di contraddittorio fra le parti – avevano escluso che i modelli costituissero indicazioni
dirette date ai dipendenti dell’appaltatore e l’incompatibilità degli orari di cui ai modelli stessi rispetto
agli orari di lavoro del dipendente A.A..
5.- I primi quattro motivi sono strettamente connessi e possono essere decisi unitariamente. Essi sono
in parte inammissibili ed in parte infondati, per come risulta dalle seguenti considerazioni.
6.- A sostegno della decisione presa con la sentenza impugnata la Corte d’appello ha richiamato,
anzitutto, sul piano giuridico, la nozione di appalto ex art. 1655 c.c. affermando che i caratteri essenziali
del contratto sono costituiti dal compimento dell’opera o del servizio verso un corrispettivo e
dall’assunzione di tale obbligo da parte di un imprenditore ossia da parte di un soggetto che agisce in
maniera autonoma rispetto al committente e che a tal fine organizza i mezzi necessari a proprio rischio.
La C.A. ha poi evidenziato la differenza tra appalto e somministrazione ponendo in rilievo che quando
un soggetto utilizzi la prestazione lavorativa di personale non assunto direttamente, ma fornito da altro
soggetto appositamente autorizzato, viene in gioco la disciplina dell’istituto della somministrazione di
lavoro; ha quindi richiamato il contenuto testuale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 ed ha affermato che
la somministrazione di lavoro si distingue dall’appalto stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655
c.c. per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore. Ha poi aggiunto la Corte fiorentina che, tuttavia, secondo il disposto normativo, nel contratto d’appalto tale organizzazione può
anche risultare, in relazione all’esigenza dell’opera o del servizio dedotto in contratto, dall’esercizio del
potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonchè per l’assunzione da parte del medesimo appaltatore del rischio di impresa; pertanto è ben possibile che l’organizzazione dei mezzi necessari non preveda la fornitura da parte dell’appaltatore dei materiali e degli strumenti necessari per l’espletamento del servizio, ma che tale organizzazione sia rappresentata dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, sempre tenuto conto della peculiarità dell’opera e del servizio dedotti in contratto.
7.- Sulla scorta di tali premesse la sentenza impugnata si sottrae anzitutto alle infondate censure in
iure formulate in ricorso con le quali si sostiene che ai fini della liceità dell’appalto sarebbe necessario
accertare in via preliminare l’autonoma organizzazione dei mezzi e/o il rischio di impresa, non essendo
sufficiente accertare la sola mancanza dell’esercizio del potere direttivo sul personale impiegato in un
appalto, come avrebbe fatto la sentenza gravata.
Per contro va rilevato che la Corte di appello sul punto ha richiamato, in modo del tutto conforme alla
interpretazione fornita da questa Corte di Cassazione (Sez. 6 – L, Ordinanza n. 12551 del 25/06/2020; sez.
5 -, Ordinanza n. 12807 del 26/06/2020), la piana e pacifica disciplina vigente (artt. 1655 c.c. e D.Lgs. n.
276 del 2003, art. 29), dal cui combinato disposto si desume che, contrariamente a quanto sostenuto
dalla ricorrente, ai fini della liceità dell’appalto di opere o di servizi sia necessaria la sussistenza di
entrambi i requisiti costitutivi del contratto, rappresentati, da una parte, dall’organizzazione autonoma
e dal rischio di impresa (necessari ai fini all’esistenza dell’impresa appaltatrice e dell’azienda a monte)
e, dall’altra, dell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati
nell’appalto (necessari ai fini all’individuazione del datore di lavoro). Per l’individuazionedi un appalto
lecito, anche endoaziendale e labour intensive, il giudice deve quindi procedere ad un accertamento
complesso mirato alla verifica dell’esistenza di entrambi i requisiti costitutivi appena individuati,
mentre la mancanza anche soltanto di uno dei due elementi in discorso (organizzazione di impresa con
assunzione del rischio economico o direzione autonoma del personale) genera il risultato vietato dalla
legge.
Ne è prova il fatto che è possibile in concreto una somministrazione illecita di personale anche da parte
di un’impresa vera e genuina che sopporti il relativo rischio di impresa,dal momento che la legge
autorizza alla stessa attività solo le imprese sottoposte a controllo dallo Stato. Sicchè, per un verso, la
diretta utilizzazione a valle da parte del committente di personale fornito da impresa appaltatrice, ma
non autorizzata alla somministrazione, sempre determina la produzione di una fattispecie
interpositoria vietata; mentre, per altro verso, la mancanza di organizzazione e di autonomia a monte,
fa venire meno l’appalto e di nuovo produce il medesimo risultato proibito dalla legge; perchè per
aversi appalto lecito è necessario che l’impresa possa esistere in quanto tale, in modo autonomo, che
abbia un risultato autonomo da conseguire con la propria professionalità; la direzione del personale
non è sufficiente se manca l’organizzazione autonoma a monte.
8.- Quelle in discorso configurano, quindi, due differenti manifestazioni di una medesima patologia
giuridica. Posto che la mancanza di autonomia organizzativa e di rischio di impresa agisce sul momento
genetico del contratto e comporta una versione per così dire hard (di manifesta illegalità) dell’appalto,
in cui l’appaltatore si limita ad operare come interposto ovvero a reperire la manodopera ed a metterla
a disposizione del reale datore di lavoro che poi la dirige anche nella sostanza facendo solo
formalmente figurare il personale come se fosse alle sue dipendenze (limitandosi al più alla mera
gestione amministrativa del personale). Laddove, invece, la mancanza di eterodirezione, ponendosi sul
terreno funzionale dell’esecuzione del rapporto, integra una fattispecie più ambigua – tendente a
sfuggire al controllo di legalità – ma non per questo meno grave di illiceità, quante volte la realtà di
questi rapporti è dissimulata da schermi giuridici (come appunto l’appalto, spesso conferito ad una
cooperativa) che mirano ad occultare l’esercizio effettivo del potere direttivo da parte dell’appaltante, a cui viene talvolta pure addetto alla bisogna un preposto che si interponga tra committente e datore
di lavoro apparente ma che nulla comporta quanto alla sostanza dei poteri di direzione esercitati
effettivamente dal primo (cosa che, peraltro, nel caso di specie non è stato neppure accertato in fatto
posto che, al contrario, come risulta dalla sentenza impugnata, il lavoratore riceveva quasi quotidianamente indicazioni su cosa fare direttamente da parte degli stessi dipendenti di Poste).
Rimane dunque chiaro sul punto che, anche dopo la abrogazione della L. n. 1369 del 1960, quello che
permane in materia è un divieto (sanzionato a livello civile, penale ed amministrativo) che concerne la
fattispecie oggettiva dell’interposizione di manodoperae non la tipologia soggettiva di chi finisce per
realizzarla. Lo scopo del divieto di intermediazione è ancora quello di reprimere la scissione tra titolarità apparente del rapporto di lavoro e sua “utilizzazione effettiva”, non essendo consentito, anche se accettato con contratto dalle parti, che il soggetto che investe, organizza e gode degli utili dell’attività produttiva non assuma per un verso la posizione del datore e la direzione del personale e dall’altro non assuma anche il rischio del costo (in senso ampio) del rapporto di lavoro (al di fuori dei casi in cui è oggi ammessa la somministrazione legale di manodopera.) Questo essendo lo scopo del divieto di appalto di manodopera o interposizione fittizia, è irrilevante che il soggetto che agisce quale intermediario sia perciò titolare di una impresa con oggetto e gestione autonomi ed operi regolarmente sul mercato come imprenditore con propria organizzazione aziendale (di mezzi e di uomini) se con riferimento allo specifico contratto egli si limiti alla mera fornitura di prestazione di lavoro subordinato diretta dal committente. Quello che conta è dunque la valutazione del concreto rapporto riferita soprattutto all’esecuzione dell’attività.
9.- Nel caso di specie, peraltro, pur essendo sufficiente in tesi, alla stregua di quanto si è sopra
affermato, la mancanza del solo requisito della autonoma direzione del personale, va pure rilevato
come la stessa censura formulata dalla ricorrente risulta smentita dal fatto che la Corte d’appello ha, in
effetti, escluso la sussistenza di entrambi i requisiti in discorso, avendo pure affermato che non
sussistesse neppure il rischio di impresa (“tale rischio risulta escluso dal fatto che gli itinerari
venissero pianificati dettagliatamente da Poste”).
10.- Alcun errore di diritto ha quindi commesso la Corte di appello nell’affermare che “la
somministrazione di lavoro si distingue dall’appalto stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 c.c.
per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, dal momento che l’organizzazione
dei mezzi necessari deve intendersi riferita allo stesso appaltatore e non al somministratore, secondo
la erronea censura sollevata da parte della ricorrente.
E neppure ha sbagliato la C.A. ad affermare che l’organizzazione dei mezzi necessari possa risultare
dall’esercizio del potere organizzativo nei confronti dei lavoratori atteso che ciò è proprio quanto
prevede la legge (art. 29 cit.), la quale, senza contraddire la fattispecie codicistica dell’appalto, richiede
che l’appaltatore organizzi i mezzi necessari all’esecuzione dell’appalto, solo ammettendo, quando ciò
sia sufficiente che l’organizzazione si risolva nell’esercizio dei poteri organizzativi e direttivi dei
lavoratori, in relazione ad alcune tipologie di appalti (c.d. labour intensive); senza che perciò in questa
seconda ipotesi sia necessario accertare in primis l’organizzazione dei mezzi necessari, come pretende
Poste Italiane Spa , sostenendo la esigenza di una sorta di accertamento pregiudiziale che non ha
fondamento alcuno ai fini della verifica della illiceità della fattispecie; avendo anzi il legislatore inteso
ampliare (affermando che l’organizzazione dei mezzi possa risultare anche dalla direzione del
personale) le stesse condizioni di liceità dell’appalto nei casi di effettiva direzione del personale da
parte dell’appaltatore, sempre che ricorrano particolari circostanze riferite a peculiari tipologie di
appalti.
11.- Infine alcuna censura può essere rivolta alla sentenza per aver affermato che l’illegittimo esercizio
del potere di controllo da parte dell’appaltante sul lavoro dell’appaltatore costituisca indice di non
genuinità del contratto d’appalto, anche perchè la tesi espressa nella sentenza impugnata è riferita
all’esplicazione della prestazione del lavoratore svolta dal lavoratore impiegato nell’appalto (“i controlli vengono fatti a livello documentale ed a livello visivo verificando quando arriva il furgone”) da
cui la Corte di appello ha fatto discendere, coerentemente, l’ulteriore conseguenza riferita alla
mancanza di autonomia dell’appaltatore (la libertà della ditta di disattendere quanto indicato nei
modelli fosse estremamente limitata).
12.- Per quanto riguarda il giudizio di fatto, le censure sollevate in ricorso sono inammissibili per più di
una ragione. Anzitutto perchè la Corte di appello ha effettuato la tipica valutazione di merito che le
compete, affermando che nel caso in esame l’istruttoriasvolta avesse dimostrato come fosse Poste
Italiane ad organizzare e dirigere l’attività del lavoratore impiegato nell’esecuzione dell’appalto; posto
che anzitutto le attività dovessero svolgersi in conformità a quanto specificamente indicato nei modelli
di pianificazione trasporti (MPT) che descrivono orari e luoghi di partenza e arrivo, punti intermedi del
percorso, tipologia dei veicoli; modelli aventi natura vincolante, per come emergeva dalle dichiarazioni
della testa C.C., dipendente di Poste Italiane. Emergeva inoltre un’attività di controllo circa il rispetto di
tali modelli ed il lavoratore riceveva quasi quotidianamente indicazioni su cosa fare da parte dei
dipendenti di Poste, come confermato dalla teste D.D.; laddove nemmeno risultava in alcun modo la
presenza di personale della ditta appaltatrice sul luogo di lavoro. Infine, secondo il giudice di appello,
alla luce di tutto ciò, il fatto che il lavoratore u Sas se effettivamente furgoni della ditta appaltatrice
non era sufficiente a ritenere la sussistenza di un rischio di impresa posto che tale rischio risultava
escluso dal fatto che gli itinerari venissero pure pianificati dettagliatamente da Poste Italiane e che il
lavoratore utilizzasse per il resto materiale di Poste (come ad esempio il carrello utilizzato per
caricare).
Si tratta di una valutazione scevra da vizi logici e giuridici che nella complessiva valutazione del
materiale istruttorio corrisponde ad una plausibile conclusione e che resiste alle censure formulate in
ricorso con le quali parte ricorrente pretende in realtà di sostituire la propria valutazione a quella del
giudice di merito. Laddove invece la direzione quotidiana del personale da parte di Poste, la
vincolatività delle direttive, il controllo, la pianificazione dei percorsi, l’uso di mezzi materiali
appartenenti tutte a Poste (a parte il furgone), la mancanza in loco di un referente organizzativo da
parte del committente, sono tutti elementi che unitariamente considerati sono più che sufficienti a
sostenere la conclusione assunta dalla C.d.A. e si sottraggono perciò alla lettura atomistica degli indici
sintomatici proposta dalla ricorrente col richiamo a precedenti di questa Corte riguardanti fattispecie
particolari; ed alle censure svolte dalle ricorrente con le quali – contrariamente a quanto in concreto
accertato dalla Corte – si pretende di far scemare il significato e la pregnanza dei poteri esercitati dalla
ricorrente degradando il potere direttivo sul lavoratore a livello del potere di direzione o di
coordinamento del lavoro che compete al committente di un appalto; le direttive specifiche a livello di
quelle generali, il potere di dirigere la prestazione col potere di indicare il solo risultato, ” il come fare
col cosa fare”, il controllo sulla prestazione col controllo sull’oggetto dell’appalto.
Per contro, quella presa dalla Corte di appello appare una decisione congrua che rientra nei poteri del
giudice di merito effettuare, posto che non viola alcuna norma di legge in ordine alla qualificazione ed
alla sussunzione del fatto accertato, atteso che gli elementi evidenziati configurano indici sintomatici
della carenza dell’appalto regolare e confermano la presenza dei requisiti tipici del lavoro subordinato
attraverso cui la persona si mette a disposizione del datore per essere assoggettato al suo potere di
eterodirezione; secondo lo schema unanimemente utilizzato dalla giurisprudenza e dalla dottrina in
merito alla perfetta sovrapponibilità delle tematiche della interposizione e di quelle della individuazione della subordinazione.
13.- La decisione cui è prevenuta la Corte territoriale rappresenta quindi una legittima e logica opzione
valutativa del materiale probatorio, e si sottrae alle censure articolate nel ricorso con le quali la parte
ricorrente si limita a richiedere una diversa valutazione dei fatti già esaminati dal giudice di merito
(Cass. 8758/2017), in conformità peraltro ad analogo esercizio ricostruttivo operato dal tribunale in
merito all’esistenza della fattispecie di appalto vietata.
Anche per tale ultima ragione appaiono inammissibili le censure ex art. 360 c.p.c., n. 5 le quali
contravvengono al principio secondo cui, in ipotesi di doppia conforme, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.,
comma 5 il ricorrente in cassazione deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della
decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro
diverse, adempimento non svolto in questa sede (Cass. Cass. 26774/2016, Cass. 5528/2014).
14.- Nessuna violazione di legge ha commesso la Corte laddove ha affermato che il fatto che il
lavoratore usava furgoni della ditta non è di per sè sufficiente a ritenere la sussistenza di un rischio di
impresa, posto che secondo l’accertamento effettuato tale rischio deve ritenersi escluso dal fatto che
gli itinerari venissero pianificati “dettagliatamente” da Poste, rilevando altresì come il lavoratore u Sas
se per il resto esclusivamente materiale delle Poste (come ad esempio il carrello).
In effetti, premesso che il contratto di appalto sarebbe nullo anche solo in relazione alla mancanza del
potere direttivo del personale, quanto al rischio d’impresa giovaribadire che in effetti in un contratto
di servizi di trasporto in cui manca qualsiasi autonomia dell’appaltatore e la prestazione viene
programmata in maniera dettagliata e vincolante dal committente, anche in relazione ai percorsi da
svolgersi, deve ritenersi che sia del tutto assente anche il rischio d’impresa. E’ bene a questo proposito
osservare che il rischio d’impresa, non consiste nel non avere certezza assoluta del compensopattuito,
poichè questo tipo di rischio è connesso ad ogni tipo di prestazione compresa quella del lavoratore
subordinato esposto al risarcimento per eventuali danni causati al datore di lavoro. Il rischio di impresa
rappresenta piuttosto il rischio del mancato utile dato dalla differenza fra ricavi e costi (compresi i
costi indiretti per impianti, beni strumentali, spese fisse, spese per utenze, servizi da terzi, ecc.) in
relazione al compenso pattuito per l’opera o servizio oggetto dell’appalto; di modo che se il compenso
è stabilito in base a parametri che fanno ricadere sul committente tutti i preventivati costi dell’opera o
servizio (perchè la realtà aziendale in cui l’opera o il servizio sono resi è già organizzata in modo tale
che non vi siano sostanzialmente costi diversi dal costo della manodopera) non sussiste un rischio di
impresa con riferimento allo specifico affare.
15.- Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex
art. 360 c.p.c., n. 3, error in judicando con riferimento agli artt. 113 c.p.c., art. 2697 c.c. e art. 20 CCNL
Poste applicabile ratione temporis, atteso che la Corte d’appello ha interpretato erroneamente l’art. 20
CCNL Poste non facendo corretta applicazione dei principi in tema di comparazione delle mansioni; sul
punto la Corte di appello, esaminate le declaratorie del livello E e D, alla luce dell’art. 20, sesto
capoverso del CCNL che prevede, ai fini che qui rilevano, che la significativa esperienza professionale
sia convenzionalmente ridotta a sei mesi (da 24 mesi) e considerato che il ricorrente avesse maturato
tale esperienza nel periodo di lavoro complessivamente svolto anche alle dipendenze di altre ditte
appaltatrici con Poste Italiane, ha riconosciuto al ricorrente il livello D) senior per effetto del
trascinamento dovuto in base alla esperienza maturata nelle mansioni di partenza livello E. Il motivo è
inammissibile; ed invero la Corte d’appello ha richiamato la complessiva regolamentazione dettata dal
CCNL e comparato le mansioni concretamente svolte dal lavoratore con i livelli previsti dalle
declaratorie contrattuali; quindi, individuate le mansioni in esecutive, tecniche, di supporto e connesse
a tutte le diverse operazioni del ciclo produttivo, come appartenenti al livello E, la Corte ha
riconosciuto il livello D, in quanto dalla disciplina collettiva richiamata dall’art. 20, quinto e sesto
capoverso risulta che, in relazione all’esperienza maturata ed alla conseguente completezza nel ruolo,
le figure professionali individuate vengono distinte in junior e senior e che per il passaggio a senior è
sufficiente maturare un periodo di esperienza lavorativa, convenzionalmente ridotto, per il personale
in servizio con contratto a tempo indeterminato, da 24 a 6 mesi per le figure professionali junior
indicate nel livello E).
La censura svolta dalla ricorrente non si confronta con tale ratio decidendi, non dimostra che nel livello
E di pertinenza, fosse prevista tanto la figura junior tanto la figura senior; si limita ad una mera
contrapposizione della valutazione effettuata e non scalfisce il ragionamento della Corte di merito con
la esegesi letterale e sistematica del CCNL in conformità ai poteri di interpretazione che le sono
riservati sul contratto collettivo e che sono incensurabili in sede di legittimità in quanto rispettosi dei
criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretti da motivazione immune da vizi logici.
16.- Col sesto motivo viene dedotta: A) la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione agli
artt. 1229, 1321, 1322 c.c.. – Error in iudicando; B) violazione e/o falsa applicazione di norma di diritto ex
art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 1229, 1321, 1322 c.c.. Error in judicando, in quanto la Corte
d’appello, da un lato, escludendo l’applicabilità della clausola di manleva contenuta nel contratto
d’appalto aveva pronunciato ultra petitum e in violazione del contraddittorio; dall’altra, aveva ritenuto
di potersi sostituire alla volontà contrattuale delle parti.
La Corte d’appello ha in effetti affermato che, come ben rilevato dal giudice di prime cure, alla base del
patto di manleva valido deve sempre sussistere un interesse del mallevadore all’assunzione degli oneri
patrimoniali conseguenti all’adempimento del patto, pena la nullità del patto per mancanza o illiceità
della causa. Nel caso in esame la clausola di manleva nulla dice in ordine all’interesse che potrebbe
avere l’appaltatore ad assumersi l’onere di tenere indenne Poste da una responsabilità che discende
anche dal comportamento stesso di Poste e dalle modalità di fornitura del servizio da questa stabilite.
Ciò posto, in primo luogo deve disattendersi la censura relativa alla violazione dell’art. 101 c.p.c. nella
parte in cui la ricorrente sostiene che la sentenza è nulla essendo previsto dall’art. 101 c.p.c., comma 2
che il giudice assegni alle parti un termine per memorie contenenti osservazioni sulla questione
rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti.
Si tratta invero di motivo inammissibile atteso che la nullità si era prodotta semmai in primo grado e,
convertendosi in motivo impugnazione, andava dedotta in sede di gravame come motivo di appello (art.
161 c.p.c.), mentre la stessa non può essere censurata per la prima volta in questa sede di legittimità.
D’altra parte, non rientrando la violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 tra i casi tassativi di rimessione
della causa al primo giudice (art. 354 c.p.c.) l’impugnante avrebbe dovuto pure indicare in quella sede, a
pena d’inammissibilità,quale sarebbe stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive
dall’invocato vizio processuale.
17.- Per il resto il motivo è privo di fondamento atteso che la nullità per mancanza di causa del patto di
manleva e sempre rilevabile ex officio, mentre l’accertamento della Corte d’appello, che si fonda
sull’esame dei documenti negoziali depositati in atti, non può essere efficacemente contrastato dalla
mera contrapposta interpretazione del contratto da parte della ricorrente, che ridonda in una
contestazione di merito non essendo la medesima censura filtrata dalla deduzione della violazione
delle regole legali di ermeneutica contrattuale, secondo quanto impone la legge in questi casi.
18.- Infine, deve essere in ogni caso affermato che la clausola di manleva del committente, afferente ad
una interposizione fittizia di manodopera, che configura a tutt’oggi una violazione relativa ad obblighi
derivanti da norme imperative di legge (Sez. U. sentenza n. 2990 del 07/02/2018), non produce alcun
effetto perchè colpita a sua volta da nullità prodotta dalla invalidità del rapporto principale ed è, in
quanto tale, rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c. (arg. anche ai sensi dell’art. 1229 c.c.).
Non può invero ammettersi che il committente possa rivalersi sul proprio interposto perchè ciò
porterebbe ad incentivare il ricorso alla fattispecie vietata la quale invece in quanto nulla non produce
effetti di sorta.
19.- In definitiva il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza come in dispositivo
con distrazione a favore dell’avvocato antistatario.
Deve darsi atto invece che sussistono le condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13, comma 1
quater per il raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in
Euro 5200 di cui Euro 5000 per compensi professionali oltre al 15% di spese generali ed accessori di
legge. Spese da distrarsi a favore dell’avvocato antistatario. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13,
comma 1 quater si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a
norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2023
Lo Studio Legale dell’Avvocato Marco Sartori offre da 40 anni qualificata assistenza con i suoi collaboratori, tutelando il cliente nei contenziosi giudiziali e stragiudiziali; di mediazione e negoziazione assistita e collaborando stabilmente con notai, commercialisti e tecnici di fiducia al fine di offrire un servizio giuridico integrato e completo.
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